L’influencer marketing al servizio della comunicazione politica e soprattutto impegnato nell’arduo compito di trainare la bubble democracy grazie alla sua enorme cassa di risonanza.
Articolo scritto e liberamente elaborato da Pasquale Incarnato tratto da “The Manosphere Won” pubblicato su Wired.
Dalle prime luci dell’alba di mercoledì 6 novembre – no, questa volta non ho seguito la Maratona Mentana (sarà l’età) gli exit poll davano una indicazione chiara: Trump non solo era in vantaggio ma era anche lontano dagli ultimi sondaggi che lo davano di poco sotto o comunque con differenze ballerine tra i due candidati, soprattutto negli Swing States. Exit poll che in poche ore hanno dato poi un dato senza dubbi meno sbiadito: Trump è il 47esimo Presidente degli Stati Uniti, conquistando addirittura 312 grandi elettori. E per la seconda volta nella storia – il primo è stato il democratico Cleveland (22esimo e 24esimo Presidente) ha ricoperto il secondo mandato in modo non consecutivo.
In questi giorni ne ho lette tante di friabili analisi del voto, di faziosi commenti del supporter di turno e nel farlo mi sono imbattuto in questo approfondimento su Wired Usa che vede la vittoria del Tycoon anche nel web, o meglio in un segmento ben preciso che è l’influencer marketing (di destra):
“Donald Trump owes at least part of his victory to the manosphere—the amorphous assortment of influencers who are mostly young, exclusively male, and increasingly the drivers of the remaining online monoculture.”
Singolare ma interessante come tema da sviscerare: l’influencer marketing al servizio della comunicazione politica e soprattutto impegnato nell’arduo compito di trainare la bubble democracy grazie alla sua enorme cassa di risonanza.
Facciamo, però, un passo indietro e pensiamo al fatto che su quell’enorme palcoscenico diretto dalla comunicazione politica a stelle e strisce è chiaro che il mondo degli influencer ha vita facile: usare chi ha un potere di influenza sulla propria fanbase per diffondere un’idea o meglio una proposta politica. Cosa alla quale noi europei non siamo affatto abituati, basti pensare a quanti influencer nostrani vi vengono in mente che trattino di politica o settorializzati altrove che prendono, però, una posizione elettorale chiara.
Pochi, pochissimi. Al contrario, i repubblicani – meglio dei democratici, diciamocelo – hanno percepito l’enorme valore che i singoli possono esercitare sulle collettività (di fan), motivo per il quale Trump nelle ultime settimane ha varcato le porte degli studi di alcuni dei più .
Sì, ma cosa hanno in comune questi podcaster a parte il fatto di aver chiacchierato per ore con il neo eletto Presidente Usa ed aver raggiunto milioni e milioni di persone grazie alle loro dirette online? Semplice, hanno parlato al loro pubblico, ovvero un target prettamente giovane, conservatore ed in taluni casi anche apolitico. Fetta di mercato alla quale Trump ha parlato ed ha puntato grazie o soprattutto a questi digital talk, avendo come garanzia gli host, ovvero i padroni di casa. Addirittura molti di questi giovani non avevano ancora votato prima e questi momenti di discussione online sono stati il loro primo touch point con la politica. E con Trump in questo caso. Chiaramente giovani che non usano i media tradizionali per informarsi ma i social media, questo è facilmente spiegabile per cui non mi soffermo.
Leggendo i risultati emerge chiaro l’identikit dell’elettore tipo trumpiano: giovane sotto i 30 anni, maschio e bianco. Profilo che, senza troppi giri di parole, ha la meglio tra la ormai famosa Manosfera (manosphere), un po’ il terreno di gioco del pubblico dei noti influencer e podcaster che hanno ospitato Trump. Senza considerare un altro aspetto singolare e che va controtendenza (soprattutto se lo paragoniamo ai risultati del 2020): il Tycoon ha la meglio anche tra le minoranze che di fatto hanno voltato le spalle ai democratici. Il perché ce lo spiega bene l’ex consulente di Trump, George Lombardi:
“L’enorme afflusso di immigrati clandestini dal Sudamerica dà fastidio proprio ai latinos che lavorano negli Stati Uniti e che magari prendono solo 15 dollari all’ora per il McDonald’s. E, con l’arrivo di 20 milioni di nuovi immigrati, temono di essere pagati 5 dollari e non più 15. Anche gli uomini afroamericani hanno votato in gran parte per Trump perché hanno gli stessi timori dei latinos.”
Insomma, penso che i repubblicani siano stati abili destreggiatori dei nuovi fenomeni, che vanno ben oltre i social media classici, ovvero della diffusione di una idea politica e di una proposta politica che parta semplicemente dai propri canali social. Infatti penso che il team di Trump abbia deciso con una saggia intuizione di diffondere dei temi chiave ed anche assolutamente divisivi usando come cassa di risonanza il potere di influenza che dei noti personaggi del mondo online hanno sul proprio pubblico. Infatti, basta fare un benchmark degli investimenti della Harris e di Trump sulle proprie pagine Meta per percepire una differenza netta di spesa con risultati assolutamente opposti, eccola:
Quindi, l’influencer marketing ha mitizzato ed umanizzato ancor più il personaggio di Trump, non facendo altro che polarizzare il dibattito grazie all’avvento della Bubble Democracy dove le persone pare vadano sempre più verso gli estremi e la politica si ritrova ad inseguire queste tendenze provando ad intercettare gli umori dello sciame digitale e delle varie bolle. Tutto questo nel caos – e nella volatilità del consenso – della disintermediazione della rete.